Bibite frates ne diabolus vos otiosos inveniat

Devo essere sincero. Quando ho visto questa immagine, mi è venuto un sorriso spontaneo. “E Vabbè, se anche il Papa parla di vino…”.

La frase è stata pronunciata durante il discorso del 14 di Febbraio 2014, ai fidanzati che si preparano al matrimonio  : http://www.vatican.va/holy_father/francesco/speeches/2014/february/documents/papa-francesco_20140214_incontro-fidanzati_it.html

In realtà, chi se ne intende di più di vino e di storia, mi ha illustrato che il rapporto fra vino e religione è molto più profondo anche sul lato tecnico.

Non parlerò di rapporto fra vino e religione dal punto di vista etico. Ho qualche idea, ma non vorrei apparire troppo superficiale.

Non parlerò di rapporto fra vino e religione dal punto di vista religioso. Non confondiamo il sacro con il profano.

MI ha colpito però che il vino deve molto ai monaci per la sua stessa evoluzione e molto nella sua evoluzione tecnica.

Voglio riportare alcuni passi presi da un sito esterno (http://christusveritas.altervista.org/medioevo_influenza_civilta_monastica.htm)

“Bonum vinum”

Un settore dell’agricoltura in cui i monaci sono stati particolarmente brillanti è quello della viticultura: uno dei risultati più prodigiosi della grande impresa benedettina. La viticultura, l’hanno propagata dappertutto: i Cistercensi da Heiligenkreutz a Clos-Vougeot, dalla Rioja a Sancerre; il Cluniacensi da CIos de Bèze, (ancor oggi uno dei più grandi Borgogna esistenti), a Egri Bikaner, in Ungheria, da Wilberton, in Inghilterra, a Dezaley, in Svizzera4.

Anche in Italia, in cui la civiltà del grappolo ha meno sofferto per i colpi inflitti dai Barbari, si può constatare in questo campo la presenza attiva dei monaci: i Benedettini delle diverse famiglie hanno dato incremento, in particolare, ai vini dei Colli Euganei, al Freisa, al Gargano., al Greco di Gerace e al Greco di Tufo, al Mantonico, al Santa-Magdalena dell’Alto Adige. Ai monaci di Grottaferrata dobbiamo il Frascati; ai Cistercensi il Gattinara; ai Certosini il Capri; ai rudi Cavalieri di Rodi, il Bardolino, il Soave e il Valpolicella; il Locorotondo, di Puglia, ai Templari, senza dimenticare il Lacryma Christi, un bianco secco, profumato, di cui siamo grati… ai Gesuiti 5.

Tanti esperimenti, felici e non, ma in ogni caso condotti con intelligenza, fecero dei religiosi, Benedettini di Cluny o di Cîteaux, di Vallombrosa o di Camaldoli, Norbertiani, canonici regolari certosini o Cavalieri di Rodi; Carmelitani,                       Domenicani o Gesuati (perché vi si misero tutti), i maestri incontestati della viticultura, e per molti secoli.

Il loro ruolo, nella “selezione dei vitigni e nel perfezionamento della vinificazione resterà dominante fino al XVIII secolo”., scrive J. Claudian. Dobbiamo ai Cistercensi della Germania la coltivazione a terrazze. La prima opera che tratta delle condizioni delicate e complesse della viticultura fa parte di un atto di fondazione dell’abbazia di Muri, presso Zurigo, che risale all’XI secolo.

Ma, se non vogliamo che nella memoria dei popoli resti impresso per sempre lo stereotipo dei monaci buongustai e goderecci (come furono talvolta nel corso dei secoli, bisogna riconoscerlo) è ora, mi sembra, di spiegare perché i                       monaci ebbero tanto interesse per la vite.

Il primo motivo, e il più evidente, è che la Comunione esige il vino. Ora, chi dice vino, nel medioevo, dice trasporti rischiosi, dazi pesanti, incertezza sulla qualità del “sangue di vite”, sballottato a lungo sulle strade di allora, o su quel che faceva funzione di strade (di qui l’interesse per il trasporto via acqua). Non dimentichiamoci i soldatacci, i predatori, i briganti da strada maestra – non è cambiato molto, col passar dei secoli – che costituivano un pericolo costante. Per soprammercato, i monaci vivono lontani dai luoghi abitati; l’arrivo del vino è dunque sempre costoso e spesso aleatorio. In queste condizioni, è logico che i monaci abbiano sistematicamente provveduto a creare dei vigneti ovunque si stabilissero, perfino nelle zone, a prima vista, meno propizie (fu il caso della Champagne, del Belgio o dell’Inghilterra, dove furono coltivati, si pensa, 300 vitigni), o anche visibilmente sconsigliabili: in Irlanda, Scozia, Danimarca, Pomerania, perfino Polonia! Non è difficile immaginare quale vinello (“piquette“) potesse venir fuori dai tini delle regioni con climi del genere! D’altronde, questo spiega perché tante abbazie del Nord acquistarono vigneti in zone più favorevoli: un altro modo di incrementare la cultura della vite.

Secondo motivo: per secoli, i fedeli, e non soltanto i chierici, si comunicarono con le due specie, almeno tre volte l’anno; inoltre ricevevano un sorso di vino non consacrato ogni domenica e giorno di festa, all’uscita della messa.

Terza ragione, che potremmo chiamare “teologica”: la Bibbia trabocca                       di passaggi relativi al vino, alla vite, al torchio, al vignaiolo, praticamente tutti positivi e di elogio. Solo eccezionalmente mette in guardia contro il vino.

Citiamo: “Il vino e le donne pervertiscono gli uomini assennati” (Eccì. 19, 2), ma la “zanpata” è indirizzata alle donne almeno quanto al vino. Il più delle volte, sono gli eccessi che vengono condannati (Prov. 23, 29).

I fedeli non dimenticheranno mai che Noè, Padre della vite, era “un uomo giusto e che camminava davanti a Dio”, o che, alle Nozze di Cana, Gesù aveva trasformato l’acqua in vino, e neppure il consiglio dell’apostolo Paolo: “Hai torto a non bere che acqua…” (I Tim. 5, 23). Lo stesso Benedetto dà il suo consenso, con talune riserve, è vero: “una misura di vino al giorno può bastare” (C. 40, 6); ma si può discutere fino a perdere il fiato sulla capacità esatta della “misura” (capacità che rivelò una sistematica tendenza ad aumentare). In compenso, il Patriarca prevede i casi in cui “la situazione  del luogo, il lavoro, l’arsura dell’estate” consentono di accordare una razione supplementare. A discrezione, ovviamente; dell’Abate, che doveva vegliare affinché venissero evitate la sazietà o l’ubriachezza. Il gusto per il vino doveva essere davvero assai pronunciato, se la Regola non contempla che prudentemente l’ipotesi che “la povertà del luogo” renda impossibile procurarsi la misura di vino prevista dal Patriarca. “In questo caso”, scrive, bisogna che (i monaci) “benedicano Dio e non si lamentino”. E siccome conosceva le sue pecorelle, aggiunge: “soprattutto: che si astengano dal mormorare”, cioè, in termini attuali, dal protestare, “mugugnare”, “brontolare”.

In seguito, san Benedetto d’Aniane (IX secolo) e san Pier Damiani (X secolo) s’incamminarono sulla stessa via. La vittoria del vino era ormai consolidata: nel XV secolo, certi monaci austriaci bevevano da due a quattro litri di vino al giorno, in pace con la loro coscienza.

(Ricordiamo, per sciacquarci la bocca, che a Vichy, stazione termale già celebre, i Padri Celestini, gravi e austeri Benedettini, sfruttavano la fonte che ancora oggi porta il loro nome. Dopo tanto buon vino, bisogna talvolta, pensare al fegato…).

Altra ragione che spiega la presenza e il successo del vino in Europa occidentale: il vino era stato, per lungo tempo, la bevanda dei Romani, ovvero dei vincitori e dei colonizzatori, e questo privilegio gli aveva conferito un enorme prestigio presso tutte le popolazioni dell’Impero.

Bere della cervogia, del sidro o dell’idromele, in un certo senso significava, ai loro occhi, un declassamento, un “imbarbarimento”; così il gusto per il vino è rimasto ben vivo,malgrado le invasioni, e le cifre di cui siamo in possesso provano che anche la gentucola beveva vino, e gagliardamente, e non solo nei giorni di festa. In complesso, le classi lavoratrici, fossero pure povere, non consumavano volentieri l’acqua, di cui diffidavano (e con ragione, d’altronde). E in questo si sentivano incoraggiati dal comportamento quotidiano dei religiosi.

L’uso della bicchierata offerta, ai giorni nostri, dai municipi in determinate occasioni, è un segno ancora ben vivo dell’importanza che il vino aveva nella civiltà medievale.

Infine, last but not least, tutto il medioevo ha creduto nelle virtù terapeutiche e medicinali del vino. Infatti san Paolo, dopo aver scongiurato Timoteo di rinunciare a bere soltanto acqua, aggiunge: “Prendi un po’ di vino, per lo stomaco e per i tuoi frequenti malesseri” (Tim. c. 23).  Ne è rimasta traccia nella farmacopea popolare moderna.

Cf. D. Seward, Lei Moines e le vin, Paris, Pygmalion, (1982).

Leo Moulin, La vie quotidianne, op. cit., pp, 111-130, e bibliografia.

Una curiosità davvero rara: il sottile e sconcertante Château-Châlon (Giura) deve il suo sapore particolare alla decisione presa, nel XIV secolo, dalla Badessa del luogo, di raccogliere i grappoli (vitigno Traminer) il più tardi possibile, cioè in dicembre; parrebbe che “il vino di paglia”, ottenuto collocando i grappoli d’uva su una lettiera di paglia, al sole invernale, sia dovuto alla stessa Badessa. Che sia benedetta!

La prima lettura è sempre quella più ingenua.

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